giovedì 26 aprile 2012

Parla con me...

Una delle cose che ricordo con maggiore simpatia e che accadeva quando entravo per la prima volta in un'aula di adolescenti, erano le loro facce a punto interrogativo del tipo " Ma ora questa qui da noi cosa vuole?"...Soprattutto quando le lezioni vertevano su argomenti quali "Il bilancio delle competenze" o ancora "Come compilare il curriculum vitae" ...curriculum che!??!?!!? Ossia quando gli argomenti esulavano dai temi canonici scolastici per aprirsi al mondo reale a quello che aspettava loro "dopo".
Così come prima lezione in una classe nuova mi sono servita spesso, e spesso in preda al panico, di uno strumento didattico molto carino ed interessante che pur non avendo alcuna valenza scientifica  ha lo scopo di far parlare di sè un adolescente diffidente e scettico. Un modo per mettere in primo piano "loro", il loro mondo, le loro emozioni, i loro princìpi, i loro ideali per condividerli assieme agli insegnanti ed ai compagni e cercare di rompere quel ghiaccio tipico della lesson number one. Il successo è garantito.
Ecco lo strumento.
Come prima cosa li faccio accomodare tutti in cerchio per una breve presentazione chiedendo loro anche tre loro qualità e tre loro difetti. ( Di solito la prima ora se ne passa con la presentazione ma mi è molto utile sentirli prima di aver somministrato il test, proprio perchè essendo uno strumento di riflessione e condivisione, spesso quelle stesse qualità e difetti detti durante la presentazione vengono completamente ribaltati o confermati dopo l'esercizio. )

1. Si distribuiscono fogli bianchi A4 , uno ciascuno. Viene chiesto loro di dividere con una penna il foglio in sei parti.
 


2. Nel primo quadrato viene indicato loro di disegnare un puntino.
  nel secondo un cerchio, nel terzo un triangolo, nel quarto un rettangolo, nel quinto una linea obliqua, nel sesto una linea serpentata.
3. A questo punto viene chiesto loro di fare un disegno intorno o utilizzando i segni apportati nei quadrati in precedenza. Qualsiasi cosa stimoli la loro fantasia va benissimo.
4. Una volta terminati i disegni si chiede loro di attribuire tre aggettivi per ciascun disegno fatto. L'aggettivo può essere positivo o negativo.
5. Una volta finito l'esercizio si svela in significato dello stesso. Si chiede a qualcuno di immolarsi come cavia e si "analizzano" i disegni.
Ossia:
1) Il quadrato n.1 ( puntino) indica l'immagine che noi abbiamo di noi stessi ed il giudizio viene ricavato dagli aggettivi attribuiti al disegno.
2) Il quadrato n.2 ( cerchio)indica come crediamo ci vedano gli altri e gli aggettivi relativi sono quello che pensiamo che gli altri pensino di noi.
3) Il terzo ( triangolo) è il rapporto che noi abbiamo con l'autorità e la fede.
4) Il quarto ( rettangolo)è quello che pensiamo della famiglia.
5) Il quinto ( linea obliqua)è il nostro rapporto con l'ambizione.
6) Il sesto (linea serpentata) è la nostra visione nei confronti della sessualità

Questo non è un test psicologico, ma solo uno strumento di maieutica pedagogica  attraverso cui l'obiettivo primario è quello di far parlare gli adolescenti, metterli a confronto con loro stessi e con i loro compagni. Discutere sul prodotto del loro esercizio è un modo per far loro domande non invadenti e dirette ma metterli in condizione di raccontarsi. I temi affrontati e che emergeranno sono tanti e molti di più rispetto ai semplici spunti dei disegni. In questo modo l'adolescente si sente chiamato in prima persona a interagire a mettersi in gioco in primo piano ed a fare maggiormente"proprie" le lezioni che verranno a seguire.

martedì 24 aprile 2012

Un caffè con....la Dott.ssa Stefania Baronio.



E con oggi inauguro una nuova Rubrica intitolata "Un caffè con..." in cui ospiterò degli/delle esperti/esperte in psicologia, pedagogia, educazione, logopedia e chi più ne ha più ne metta, che, giusto il tempo di sorseggiare un buon caffè accompagnato da due" chiacchiere" utili ed interessanti, ci esporranno le loro originali teorie, spunti per interessanti riflessioni!!!
Oggi ospito la Dottoressa Stefania Baronio che ci terrà compagnia per quattro gustosi caffè parlandoci di Gatti e bambini e non solo...
Come primo incontro direi che si sta una bella presentazione.
Ecco chi è la
  Dottoressa Baronio:


nasce nel 1974 e consegue nel 2000 la Laurea in Psicologia (indirizzo clinico evolutivo) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si specializza in Psicoterapia Breve Integrata (Iserdip) (2001-2005) rivolta ad adulti e adolescenti. Iscritta all’Ordine Psicologi - Psicoterapeuti della Lombardia (n° 6775). Successivamente si specializza come Sessuologa Clinica presso AISPA (2006-2010). Appartiene alla FISS (Federazione Italiana Sessuologi) come Sessuologo Clinico.
Dal 2002 esercita privatamente l’attività di Psicologa (consulenza, diagnosi), successivamente di Psicoterapeuta (disturbi d’ansia e stress correlati, somatizzazioni, fobie, disturbi alimentari, assistenza alla genitorialità, tecniche di rilassamento …) e Sessuologa Clinica (individuale e di coppia), tenendo corsi specifici sulle tematiche sessuali.
E’
docente e consulente presso enti-aziende privati; insegna in corsi (alcuni da lei progettati) su tematiche come: Comunicazione, Vendita, Stress e burnout, Gestione conflitti in azienda, Coaching., Problem solving, Dinamiche di gruppo, formando sia figure ospedaliere che aziendali. Partecipa a progetti per scuole medie e superiori per la formazione di un’area di ascolto psicologico per studenti-docenti-genitori e di orientamento. Collabora nell’analisi e prevenzione dello stress correlato al lavoro.
Dal 2005 è
Presidente di Commissione esaminatrice per corsi OSS per la Provincia di Milano e Regione Lombardia. Amante dei gatti ha partecipato a Convegni sugli animali, portando tematiche specifiche da lei teorizzate sulla comprensione di questi animali, su come conoscere sé stessi attraverso il felino e come crescere insieme a loro. 

GATTI E BAMBINI ( I parte) 


Stefania Baronio

Introduzione

Da sempre l'uomo è attratto dall'
animale sia per le sue caratteristiche "non umane", che accendono in lui il bisogno di prendersene cura, sia per le emozioni che esso attiva. Molti sostengono che sin dall'era paleolitica l'uomo ha utilizzato gli animali come coadiuvanti alle comuni terapie mediche, ma è solo da una trentina d’anni che sono stati indicati veri e propri percorsi terapeutici. Mediante esperienze condotte su diverse tipologie di animali in relazione con l’uomo, è stato comprovato che attraverso il gioco, l’accudimento e la comunicazione, è possibile ottenere ottimi risultati sulla qualità della vita. L’animale può svolgere infatti diverse funzioni: di diminuzione di stress e di aggressività; di aiuto per soggetti con problemi di comportamento sociale e relazionale; di aiuto per persone con disabilità (fisica e sensoriale), con forme di ritardo mentale o disturbi psichiatrici; per soggetti carcerati o ospedalizzati. Si è dimostrato che la relazione fisica con l’animale (toccarlo, pulirlo, accarezzarlo) aiuta ad aumentare la presa di coscienza della propria corporalità, fondamentale per lo sviluppo evolutivo. Ad esempio, con soggetti ipertesi e cardiopatici si sono avuti ottimi miglioramenti, in quanto accarezzare il manto di un animale diminuisce la pressione arteriosa e regolarizza la frequenza cardiaca.

Quindi la
presenza di un animale, opportunamente impiegato, può essere un importante aiuto alla guarigione e, soprattutto al mantenimento della salute. (Un effetto quest'ultimo, che è stato più volte confermato su gruppi di persone che hanno subìto un infarto: la malattia cardiaca, infatti, si è ripetuta in minore percentuale laddove nella vita dei post-infartuati fosse presente, in modo attivo, un animale). Una conseguenza a questo tipo di relazione privilegiata è stata la stimolazione di energie positive, che ha permesso di rendere più accettabile al paziente il proprio disagio: alcune recenti esperienze condotte su bambini ricoverati in reparti pediatrici, nei quali si è programmato una Attività Assistita dagli Animali, hanno mostrato che l’interazione ludica e l’attivazione di curiosità consentivano di alleviare il disagio della degenza, permettendo anche un rapporto più positivo verso la terapia.

Quindi possiamo osservare che il rapporto con un animale può favorire: crescita evolutiva, benessere e miglioramenti fisici e psichici, socialità e accettazione dei propri limiti.

L’intervento degli animali, scelti tra quelli con i requisiti più adatti in base al progetto terapeutico, può avere diversi obiettivi, tra cui: stimolare l’attenzione e un’interazione comunicativa ed emozionale; stabilire un contatto oculare e tattile; favorire il rilassamento attraverso il controllo dell’ansia e dell’aggressività; esercitare la mobilità degli arti.

Un corretto inserimento degli animali nelle
terapie di aiuto, impone quindi all’origine la scelta dell’animale più adatto: in questo scritto si vuole focalizzare l’attenzione sul gatto.


L’uomo e il gatto 

“Una delle tante idiozie assurte a dignità proverbiale, e contro le quali la scienza vanamente si batte, è l’opinione che i gatti siano falsi” (K. Lorenz: “l’anello di Re Salomone”).

Gli studi hanno dimostrato che è proprio il contrario:
il gatto non riesce a mascherare le proprie intenzioni e per coglierle è necessario osservare e associare le varie espressioni corporali dell’animale con le azioni compiute dallo stesso. I fortunati che hanno letto il libro sopraccitato (a tutti gli altri lo consiglio vivamente) sanno che, affinché ai nostri occhi il gatto risulti come un libro aperto, è necessario acquisire il proprio anello di re Salomone e imparare ad usarlo. Ma come fare? Ad ogni essere vivente e non, è stato donato un bagaglio di risorse e limiti, ed è proprio perché l’uomo è l’animale più evoluto che ha la capacità di capire e sfruttare ciò che ha attorno a Sé, in maniera potenzialmente equilibrata. Per ottenere ciò deve imparare a conoscere e usare se stesso e……tutto convoglia nella comunicazione!

La ricerca scientifica ci ha confermato più volte che la
comunicazione si divide in verbale e non verbale (Watzlawick): la prima copre il 15-20% della nostra comunicazione ed è dominio dell’emisfero sinistro e della razionalità (su di esso abbiamo il pieno controllo); la comunicazione non verbale occupa l’80-85% ed è dominata per lo più dall’emisfero destro. 



Essa è portatrice di informazioni emozionali, sfugge al controllo razionale e quindi al sistema conscio. Ciò che affascina è sia la percezione che non possiamo controllare tutto, sia che esiste un controllo inconscio che non segue le regole razionali (Freud parlava di intenzionalità inconscia); nello stesso tempo però siamo costantemente artefici degli eventi e delle relazioni.

Se prendiamo in considerazione
soggetti sofferenti, notiamo che è proprio la parte emozionale quella più significativa e che manifesta più problematiche: queste caratteristiche diventano ancora più rilevanti nel momento in cui parliamo di soggetti in età evolutiva, periodo in cui la parte emozionale è indubbiamente quella dominante.

Ma ritorniamo al nostro micio…. privo della parola: non avremmo bisogno di nessun
“anello magico” se solo imparassimo a relazionarci con questi minuscoli esseri, usando quella parte emozionale che utilizza la comunicazione non verbale che l’uomo, purtroppo, dimentica crescendo!

Storicamente è l’essere umano che ha scelto il gatto e lo ha addomesticato, oppure è il gatto che ha scelto l'uomo ed è divenuto domestico per propria iniziativa e decisione? Molto probabilmente è vera questa seconda ipotesi. Questo spiega dunque come l'uomo provi per questo animale sentimenti spesso contrastanti: amore, paura, odio… nel migliore dei casi curiosità… ma mai indifferenza; tuttavia pur essendo così evidente, stigmatizzato e privo di sorprese,
il “linguaggio” del gatto crea molte difficoltà all’uomo che vuole stabilire una relazione con lui.

La mia personale esperienza mi ha visto protagonista fin da piccola nel domandarmi cosa portasse a questa difficoltà, nelle persone a me vicine. Forse a me “l’anello di Salomone dei gatti” è stato donato dalla nascita o forse… in un’altra vita ero una di loro… quello che è certo è che, già in tenera età, i gatti mi hanno contagiato con il loro fascino, fascino che invece sembra trascurato da molte persone che anzi lo rifiutano e ne hanno paura. Da grande grazie alla psicologia, terapie personali e sempre più contatti con questi felini, ho capito!

Da un lato, come in parte già espresso, c’è la questione che ancora oggi conosciamo poco il nostro linguaggio non verbale e che ormai c’è tempo solo per sé stessi (in alcuni casi neppure); il felino però ci obbliga, più di altri animali da compagnia, ad attivare diversi meccanismi introspettivi e a riprendere quindi il contatto con quella parte umana ancora “animale”. L’
impegno fisico e mentale che il gatto ci attiva dipende dalle sue caratteristiche, che lo rendono unico proprio per la sua autonomia e indipendenza.

Ma non è tutto qui: c’è ancora qualcosa di particolare in questo animale, che lo rende così affascinante…Si tratta del
compromesso...una parola apparentemente semplice ma il cui significato è così difficile da comprendere anche nelle relazioni umane, figuriamoci quando vogliamo metterci in relazione con un animale, in particolare con un gatto!

Con questo felino, occorre infatti attivare continui compromessi: insieme con esso bisogna scegliere un linguaggio comune, un orario per i suoi bisogni primari, la modalità di gioco, il tempo delle coccole, le sfide di gerarchia…

Di primaria importanza e caratteristica assolutamente differente dagli altri animali da compagnia, è che il
gatto sa dire di NO: questa specifica qualità costringe l’uomo, che cresce con il desiderio e contemporaneamente con la paura più o meno inconscia di guidare/dominare, a mettersi in discussione e a fare fatica.

Proviamo a capire meglio insieme questo concetto con alcuni facili esempi: alcuni amici mi hanno spesso fatto notare che il gatto non ubbidisce, che quando non ha voglia di fare qualcosa semplicemente non lo fa.

A questa obiezione io ho sempre banalmente risposto: <<ma scusate se a voi, stanchi della giornata di lavoro, dopo ore di attività fisica e mentale, quando siete nel vostro letto accoccolati e in procinto di prendere sonno, dicessero “adesso scendi dal letto e giochiamo” oppure “vieni che ti accarezzo” o ancor peggio vi prendessero di forza obbligandovi a stare in posizioni scomodissime… voi lo accettereste?>>….credo di no, vi ribellereste magari aggredendo. Perché dunque chiedete ad un altro, quello che anche voi non fareste, se non per ragioni dettate dalla razionalità, capacità propria ed esclusiva dell’essere umano?

Questi esempi mostrano che avere una personalità indipendente non è una prerogativa solo umana.

Al gatto, inoltre, viene spesso imputato anche di essere solitario e di non dare affetto… ma, sulla base di quanto detto finora, domandiamoci prima se non siamo noi a non saperlo cogliere.

Possiamo aggiungere ora un’ ulteriore caratteristica. Questa capacità del micio di imporre i propri bisogni, obbliga l’uomo che lo cerca come oggetto di bisogno, ad attendere: lo vorremmo vicino per accarezzarlo, oppure lo vorremmo per giocare…e lui ci rifiuta, andandosene o ringhiando o puntando le zampe contro il nostro petto mentre è in braccio. Questo comportamento può essere colto come “non ti voglio bene” soprattutto in soggetti con nuclei psicologici di dipendenza o che stanno attraversando proprio la fase evolutiva di dipendenza come i bambini e gli adolescenti. L’uomo al sorgere del suo bisogno vorrebbe subito l’oggetto utile per soddisfarlo, ma con il gatto non avviene sempre; è così che di fronte all’attesa o si lascia prendere dalla disperazione credendo di averlo perso oppure è costretto ad attendere: se riesce in quest’ultimo obiettivo potrà presto notare che poco dopo sarà il gatto stesso a cercarlo mostrando che il suo affetto non è cambiato.

Anche l
’attesa ha un ruolo importante: fa prendere coscienza sia della frustrazione/limite della non soddisfazione immediata del proprio bisogno, sia che un rifiuto non significa per forza perdita dell’oggetto.

Inoltre il gatto stesso, più del cane, di fronte ai suoi bisogni primari, non ha una grande capacità di attesa: quando vuole qualcosa, farà di tutto per ottenerla, anche miagolando per ore, finché non gli si dà ascolto. Questo comportamento può essere ricondotto, in base alla capacità del padrone di creare una gerarchia, all’essere “capo branco” e quindi a dominare l’animale, ma proprio per il compromesso prima descritto, ci impegnerà nella cura e nel suo allevamento.

E’ dunque per tutte le caratteristiche esaminate che la mia esperienza mi ha portato a considerare il gatto come strumento, non solo di attivazione empatica, ma in base alla teoria delle fasi evolutive di Erikson, anche come oggetto che permette il superamento della fase evolutiva di separazione dalla madre, verso la
formazione di una identità autonoma e indipendente.



....finisce per ora il tempo con la Dott.ssa Baronio, che ringraziamo per il suo articolo e la sua originalissima teoria sui gatti...martedì prossimo continueremo questa interessante "chiacchierata"!!! 

venerdì 20 aprile 2012

Mi conosco abbastanza?

Una delle cose che maggiormente mi stupiscono quando insegno durante i corsi di formazione di orientamento al lavoro è il rilevare quanto poco ci conosciamo. Pensiamo di conoscerci, crediamo di conoscere i nostri punti di forza ed i nostri punti di debolezza, ma in realtà non appena si pone la domanda che spesso ricorre durante i colloqui di lavoro "Dimmi i tuoi tre punti di forza" ecco che il silenzio domina sovrano. Questa situazione si ripresenta soprattutto quando si è alle prime armi, si affrontano i primi colloqui, si è appena usciti dal mondo scolastico e ci si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro. Ma non di rado capita anche tra gli adulti, che spesso ribaltano la domanda "Posso dire prima i miei difetti?". E' tutta questione di autostima e di conoscenza di se stessi. Spesso non ci si sofferma sul guardare se stessi con un occhio esterno, per cui le emozioni che proviamo, le sensazioni ed i sentimenti influenzano la percezione dell'immagine di noi stessi e spesso, inconsapevolmente, ci allontaniamo così tanto dalla realtà che quando ci ritroviamo a fare il lavoro che sognavamo ci ritroviamo infelici ed insoddisfatti. Come quando vediamo un bellissimo abito sulle riviste di moda, lo guardiamo, lo desideriamo, lo vogliamo. Quando poi però lo proviamo e ci accorgiamo che non fa per noi, rimaniamo delusi, forse perchè non abbiamo valutato prima se il vestito, quel tipo di vestito era adatto a noi, se ci sono occasioni in cui poterlo indossare, se il colore dona al nostro colore della pelle ecc...
Perchè una cosa è sapere cosa vogliamo, un'altra è credere di saperlo. 
Capita così che un ragazzo particolarmente creativo si trovi a fare un lavoro routinario, che lo isola da un contesto sociale, chiuso in una stanzetta oppure capita che un ragazzo particolarmente chiuso e solitario si trovi a dover avere contatti perenni con un pubblico ostinato e se è pur vero che la nostra società non lascia tanto spazio per trovare il lavoro che piace, è anche vero però che conoscere se stessi è un buon modo per cominciare e valutare se quello che si sta facendo è un lavoro di passaggio o il lavoro della vita.
A questo proposito posto una tabella che mi è stata utilissima durante i corsi che elenca una serie di qualità personali. Gli alunni, dopo aver compilato la prima tabella ne riflettono la risposta accurata. La cosa interessante è proprio la tabella successiva in cui si chiede di focalizzare i momenti della nostra vita in cui abbiamo evidenziato una particolare qualità. Alla fine si avrà una fotografia di se stessi e delle proprie qualità. Una volta finito questo lavoro si confronta la tabella con il l'idea del lavoro che piacerebbe fare. Si elencano una serie di caratteristiche del lavoro che piace. Ad esempio se il nostro desiderio è quello di lavorare nel campo della pubblicità si sceglie una figura nel campo pubblicitario e si stila una sorta di identikit. E alla fine le si confronta con la propria tabella delle qualità. Quanti più punti combaciano tanto più il lavoro scelto è adatto a noi.Questo è uno strumento utile a livello personale anche in momenti di bassa autostima, quando i ricordi si offuscano a tal punto da dimenticare le situazioni positive in cui abbiamo dato prova di noi stessi. 
  1. Leggi l’intero elenco e seleziona le 14 più importanti qualità personali che senti di possedere.

AccademicoAccettanteAccoglienteAccortoAccurato
AdattabileAltruistaAmbiziosoAmichevoleAnalitico
AnticonformistaApertoAscoltatoreAssertivoAstuto
AttendibileAttentoAttivoAttraenteAudace
AutenticoAutonomoAvvedutoAvventurosoBen Coordinato
CalmoCarismaticoCautoCoerenteCollaborativo
CompassionevoleCompetenteCompetitivoComprensivoComunicativo
ConcettualeConcretoConformistaConsapevoleConservatore
ControllatoCooperativoCoraggiosoCordialeCorretto
CoscienziosoCostanteCreativoCuriosoDeciso
DeterminatoDi supportoDiligenteDinamicoDiplomatico
DirettoDisciplinatoDiscretoDisinibitoDisinvolto
DisponibileDolceDominanteEducatoEfficiente
ElasticoEloquenteEmotivoEmpaticoEnergico
EntusiastaEquilibratoEsigenteEspansivoEsplorativo
EspressivoFedeleFermoFidatoFiducioso
FisicoFlessibileForteFrancoFreddo
GenerosoGentileGenuinoGiocosoGiudizioso
GregarioIdealistaImmaginativoImpulsivoIncoraggiante
IndagatoreIndipendenteIndividualistaIndustriosoInformale
IngegnosoInnovativoIntellettualeIntelligenteIntraprendente
IntrospettivoIntuitivoLavoratoreLealeLogico
LoquaceLungimiranteManualeMaturoMeticoloso
MetodicoModestoMoralistaMotivanteMotivato
Non convenzionaleObbedienteObiettivoOnestoOrdinato
OrganizzatoOriginaleOstinatoOttimistaParsimonioso
PassionalePazientePercettivoPerseverantePersuasivo
PoliticoPonderatoPosatoPositivoPratico
PrecisoPremurosoPrevidenteProduttivoProfessionale
ProgressistaPropositivoPrudentePuntigliosoPuntuale
RazionaleRealistaResponsabileRiflessivoRilassato
RiservatoRispettosoScaltroSchiettoSemplice
SensibileSerioServizievoleSicuro di séSimpatico
SinceroSinteticoSistematicoSocievoleSofisticato
SollecitoSpontaneoStabileTatticoTemerario
TenaceTolleranteTradizionaleTranquilloTrasparente
UmanoVeloceVersatileVigoroso

  1. Metti in ordine gerarchico i 14 punti di forza individuati precedentemente e, per ogni punto, fai una breve descrizione e trova almeno una situazione o una “prova” che attesti il possesso della qualità.

Priorità
Qualità
Descrizione “Prova”
1


2


3


4


5


6


7


8


9


10


11


12


13


14



Buon lavoro!

martedì 17 aprile 2012

Genitori dis-abilitati!

Nel mio lavoro come insegnante di sostegno mi è capitato di incontrare tante famiglie del bambino disabile che davanti alla disabilità del/la proprio/a figlio/a avevano perso il loro ruolo di genitori ricoprendo quello di assistente alla malattia. 
Riconosco che avere a che fare con una disabilità sia di natura psichica che fisica è compito assai arduo e faticoso, talvolta frustrante ma anche pieno di grandi soddisfazioni, quando al bambino disabile si riconosce il diritto di vivere. Infatti molto spesso l'atteggiamento che ho riscontrato nei genitori dei bambini con disabilità è stato quello di resa, pietà, estrema protezione, commiserazione, auto-commiserazione, rabbia, vittimismo nei confronti della società, indifferenza al problema, senso di colpa. Tutti atteggiamenti che vedono il bambino con disabilità ricoprire un ruolo passivo in cui lui/lei subisce in toto le decisioni degli altri, spesso acuendo il lato "capriccioso" perchè "lui è poverino quindi a lui tutto è dovuto". Bisogna fare molta attenzione anche quando il bambino disabile si trova in una famiglia con fratelli, perchè l'eccessivo permissivismo a lui rivolto o le attenzioni che assorbono i genitori tout court possono emarginare ancora di più il bambino che può sentirsi "diverso" anche a livello affettivo apparendo agli altri figli come un piccolo tiranno prepotente. Ritengo al contrario, con fermezza, che il bambino con disabilità abbia gli stessi diritti di tutti gli altri bambini che non hanno menomazioni e fisiche nè mentali, e che abbia diritto ad un percorso educativo che tenga conto sì dei suoi evidenti limiti, ma anche delle sue potenzialità, perchè un bambino disabile ha diritto a diventare un adulto. 
La prima regola da seguire è quella di evitare di fare paragoni con altri bambini della sua età che però non presentano diverse abilità. Partire da quello che il bambino è, da ciò che sa fare, da ciò che può dare è un buon inizio per riconoscere la sua unicità come persona. Il bambino non può e non deve diventare la pattumiera delle nostre aspettative nei suoi confronti, e a dire il vero, questo vale per tutti i bambini, non può diventare il punto focalizzatore delle nostre frustrazioni e delle nostre insoddisfazioni, ma deve essere riconosciuto in pieno in tutte le sue caratteristiche. Una volta "fotografata" la situazione è necessario individuare le potenzialità, ossia quello che il bambino secondo noi può migliorare. E' atteggiamento molto diffuso evitare di rimproverare il bambino disabile perchè "poverino ha già questo guaio", " non carichiamolo di responsabilità, la vita è già stata dura con lui", " è solo", " è malato". Niente di più nocivo. I genitori armati di tanta pazienza, dedizione, attenzione, ascolto e realismo  hanno il compito, più di tutti, più della scuola stessa, più delle istituzioni, di far sbocciare i loro figli in un clima di amore che riconosca la diversità come ricchezza e non come un ostacolo da superare. Le barriere fisiche e culturali da superare che sono imposte dalla società sono già tante, troppe, è necessario che i genitori cambino queste barriere in staffette di lancio perchè diventare adulti è un compito arduo per tutti, se ci convinciamo di questo concetto si intravedranno nel percorso di crescita solo passi dopo passi e non ostacoli insormontabili.
Rimando alla visione del bellissimo e drammatico film "Anna dei miracoli", un esempio di come sia possibile  avere successo nell'educazione di una bambina con disabilità grave e di come sia possibile abilitarci ad una pedagogia di bambini speciali! 
Breve spezzone de:
Prima parte: "Anna dei miracoli"- il punto di partenza
Seconda parte :"Anna dei miracoli"- risultati ottenuti

lunedì 16 aprile 2012

Gli ostacoli nella comunicazione interpersonale.

Ci sarà capitato moltissime volte di sentirci dire o ripetere " Non hai capito! ". Quante volte ci sembra che il messaggio che vogliamo comunicare sia travisato e quante volte ci capita di interrompere qualcuno mentre parla! Ecco, ho cercato di individuare alcuni ostacoli che possono creare fraintendimenti, "qui pro quo" durante il processo di comunicazione. 
E' chiaro che la comunicazione alla quale faccio riferimento non è quella semplice che utilizziamo al bar tutti i giorni ordinando un caffè, ma è la comunicazione interpersonale, quando vogliamo comunicare un concetto, un'idea oppure uno stato d'animo.

Quando ci teniamo davvero a comunicare qualcosa e che il messaggio venga ben recepito, dobbiamo assicurarci che lo spazio circostante sia privo di rumori molesti  ( televisione, radio, clacson, urla, ecc..), spesso una distrazione, un rumore può incidere sul corretto recapito del messaggio e può far travisare anche solo una parola; inoltre è necessario avere ben chiaro il concetto che si vuole comunicare; utilizzare un linguaggio quanto più possibile semplice e diretto e non stancarsi mai di ripeterlo qualora l'interlocutore ne facesse richiesta.
Scegliere sempre il momento giusto; questa cosa fa parte di un atteggiamento di ascolto nei confronti dell'altro; è necessario ascoltare e sapere ascoltare anche l'altro se si vuole che ci dia attenzione. E' chiaro che se prendiamo l'altro in un momento di nervosismo o quando è stanco la sera dopo una giornata di lavoro, avremo meno possibilità di avere successo e molte più probabilità di sentirci frustrati.
 E' sempre necessario avere presente chi abbiamo di fronte, il livello culturale, la sensibilità, i limiti della persona con la quale ci relazioniamo. 
Inoltre è bene capire anche il nostro stato d'animo che influenza non poco le nostre parole. Infatti se abbiamo davanti una persona particolarmente antipatica potrebbe scapparci qualche giudizio negativo involontario che influenzerebbe non poco la bontà del messaggio. Infatti il giudizio pone l'interlocutore in una posizione di difesa che ostacolerebbe tutto l'andamento della comunicazione.
Anche ragionare per stereotipi o frasi fatte non fanno che aumentare la "sporcizia del messaggio" in quanto sono altamente spersonalizzanti e si ha l'impressione di parlare a vuoto senza che le parole possano davvero arricchirsi di significato coinvolgendo in prima persona i comunicatori. Non esagerare però nell'altro verso, ossia arricchendo troppo il discorso ripetendo "Io, io per esempio, io...." comunicando che il proprio atteggiamento o le proprie azioni sono superiori tanto da essere da esempio, infatti questo potrebbe far scaturire nell'altro atteggiamento di inferiorità che non giovano al processo comunicativo. 
Comunicare ma soprattutto saper comunicare è un pò come imparare a guidare l'automobile, all'inizio c'è bisogno della massima attenzione e concentrazione, ma una volta imparati i meccanismi, ci verranno in automatico al momento opportuno!

giovedì 12 aprile 2012

La paura della morte

Quasi sempre la paura della morte non è paura della morte in sè, quanto paura della solitudine, di non essere capiti e compresi fino in fondo, paura di essere soli davanti a qualcosa di sconosciuto e di immensamente più grande di noi. Quante volte davanti ad ostacoli che ci sembrano insormontabili, la carezza dell'amato, il consiglio di un amico, la mano tesa di una persona cara hanno lenito la paura, hanno attutito il colpo perchè nell'unione e nell'incontro con l'altro ci sentiamo forti, ci scambiamo il coraggio, condividiamo la paura. Nella morte siamo lasciati soli a noi stessi. Soli con i nostri pensieri, soli con le nostre paure, soli con il nostro dolore e spesso più cerchiamo conforto ed aiuto, più il senso di solitudine piuttosto che attenuarsi si acuisce. La morte in fondo non è che il distacco dal nostro corpo, dalle nostra abitudini, dalle nostre certezze che con fatica abbiamo cercato di costruire ma la morte è anche un faro importante se sappiamo collocarlo nella giusta prospettiva. Tutta la scala dei nostri valori cambia se abbiamo come punto di riferimento la morte. Le cose che ci sembravano importanti e fondamentali si ridimensionano trovando una collocazione pari al loro valore, i rapporti si liberano di formalità e convenzioni, il nostro comportamento è privo di condizionamenti. In fondo quello che rifiutiamo è l'idea che un giorno tutto sarà finito e se non credi in qualcosa che vinca e superi la morte, questo è un pensiero che ti porta spesso alla pazzia. Perchè trovare un senso al dolore, alla sofferenza ed alle ingiustizie se non è accompagnato da una chiave di lettura che si stacca da una visione puramente materialista della vita ci toglie la peculiarità stessa dell'essere umano, capace di trasformare ciò che tocca in vita con la forza del pensiero e la capacità di credere anche a quello che non tocca e che non vede.